Eric Tinkler: il raffinato erede di Bisoli

Ci sono paragoni che te li porti dietro per tutta la vita. Non si scrostano via, proprio come la sabbia più ostinata. Per esempio quello all’ultimo banco a scuola sarà sempre il ciccione casinaro. Anche se nella vita diventerà una persona seriosa e perderà 40 kg. Più o meno la stessa cosa è accaduta a Erik Tinkler. Ancora oggi i tifosi del Cagliari lo ricordano come il “Bisoli raffinato” e non come il primo sudafricano a vestire la maglia rossoblu. Ma che significa Bisoli raffinato? Significa che il capitano della nazionale sudafricana era, sì, uno che menava come un fabbro, ma  era anche un gran tiratore da fuori e specialista sui calci piazzati. O almeno così sperava Gregorio Perez, il suo tecnico durante l’avventura in rossoblu.

Tinkler sbarcò in Sardegna nell’estate del ’96, insieme a Fish e Masinga. Ma mentre questi ultimi erano parvenu nel calcio europeo, il mediano del Cagliari vantava invece diverse stagioni in Portogallo, al Vitoria Setubal. Non proprio una big, ma comunque più nota degli Orlando Pirates di Fish.

Perez gli affida le chiavi del centrocampo e lo schiera sempre titolare nelle prime giornate di campionato. Sarà un caso, ma il Cagliari dopo 6 partite ha raccolto appena 4 punti, frutto di una vittoria, un pareggio e quattro sconfitte. Tanto basta a Cellino per dare il benservito al tecnico uruguaiano e ingaggiare l’italianissimo Carlo Mazzone.

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Eric Tinkler e uno sguardo da duro alla "Pierpa Bisoli"

Il ‘sor Carletto” intuisce subito che la situazione è disperata e che per evitare il tracollo sia necessaria una rivoluzione. Mazzone mette quindi al bando, anzi in panchina, la campagna acquisti esotica di Cellino per puntare tutto sugli indigeni. L’epurazione colpisce anche Tinkler. Da lì in poi, il sudafricano vede il campo solo per pochi spezzoni di gara. Inutile aggiungere che il rapporto con l’allenatore si è guastato. Anzi, non è mai nato. Ma la guerra fredda, nonostante il clima mite della Sardegna, si trasforma in scontro aperto dopo qualche mese. Il Cagliari boccheggia in fondo alla classifica. E’ il momento di stare tutti uniti per difendere con le unghie una Serie A che sta sfuggendo di mano. Invece Tinkler chiede il permesso di andare a Lisbona per giocare un’amichevole di lusso tra star dell’Europa e dell’Africa. Mazzone, o chi per lui, gli nega il permesso. E lui per tutta risposta abbandona l’allenamento infuriato. Insomma, non proprio l’atteggiamento giusto per riconquistare un posto nell’11 titolare.

Tuttavia, Mazzone ha ancora bisogno del sudafricano: spareggio- salvezza tra Cagliari e Piacenza. Si gioca a Napoli. Manca un quarto d’ora alla fine e il Cagliari è sotto 1-2. Mazzone si guarda in panchina e vede il sudafricano. Ma sì, pensa il tecnico romano, buttiamo nella mischia anche lui, vuoi vedere che pesca dal cilindro il gol della speranza. Niente da fare, alla fine il Piacenza nell’ extratime segna il 3-1 con “toro scatenato Luiso. Il Cagliari è in B. Dopo il crollo c’è sempre la ricostruzione. Ma del progetto non fa più parte Tinkler, venduto al Barnsley, neopromossa in Premier Leauge. Ci resta 5 anni, prima di ritornare in patria. Dopo il ritiro è diventato assistente dell’allenatore Roger de Sà al Wits, doveva aveva iniziato a giocare da ragazzino. Ma dal Sudafrica assicurano: se un domani Eric subentrasse a de Sà, l’eredità sarebbe decisamente meno pesante di quella di Bisoli.

Mariano Messinese

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Mark Fish: lo psicologo assonnato

Mi ispiro a Baresi. Somiglio a Desailly


La moda delle Vuvuzela è stata un tormento. Soprattutto per le nostre povere orecchie al mondiale sudafricano del 2010. Eppure non è stata l’unica cosa che l’Italia ha importato dal paese più a Sud del continente Nero. Qualche anno prima, nell’estate del 96, alcuni dirigenti delle società italiane puntarono i riflettori sui Bafana Bafana ( i nostri ragazzi), cioè sulla nazionale di calcio del Sudafrica, fresca vincitrice della Coppa continentale. Sia chiaro, non  fu un successo epico come quello degli Spingbok al mondiale di Rugby nel ’95. Tanto che sull’impresa calcistica non è mai stato prodotto un film come Invictus. Eppure i nostri talent-scout intravidero del talento fra i ragazzi che formavano quella squadra, nata sulle ceneri dell’apartheid e della lunga esclusione dalle competizioni, imposta dalla Fifa negli anni 60. Tre giocatori su tutti colpirono gli osservatori: Phil Masinga, Marc Fish e Eric Tinkler. Il primo finì in B alla Salernitana, gli altri due alla Lazio e al Cagliari.

Mark Fish era il capitano della nazionale. Ed era un difensore centrale promettente. Ma si ritrovò a giocare nella Lazio di Zeman, non proprio l’ideale per chi ricopriva quel ruolo. Senza dimenticare i problemi di ambientamento per un ragazzone sudafricano di 22 anni. Addirittura una volta non si presentò all’allenamento. Stava dormendo beato a casa.  Ma il jet-lag non c’entrava niente. Semplicemente Fish si era dimenticato di regolare la sveglia. Se la cavò con una multa. Dopo tutto era un sonnellino innocente. Il problema è che si addormentava anche in campo e nell’uno contro uno veniva sistematicamente bruciato dagli attaccanti avversari. Troppo alto(1,92) e troppo lento per il nostro calcio. Questa era la sentenza dopo due mesi in Italia.

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Mark Fish: in una rara fotografia con gli occhi aperti

A novembre poteva andare anche già via, ma strinse i denti e scelse di continuare la sua avventura in biancoceleste. I sacrifici furono ripagati con un gol in un deludente 1-1 contro il Verona. Si illuse allora di aver finalmente compreso Zeman e il suo calcio tutto impeto, assalto e difesa alta come l’Everest. Già, così credeva, magari anche perchè confidava sui suoi studi in psicologia. Ma la psicologia è interpretazione, non previsione. Infatti il gigante sudafricano non poteva sapere che il Boemo sarebbe stato cacciato di lì a poco per fare posto a Zoff. E con il “Friulano Vertical” le cose volgeranno al peggio. Dopo una sconfitta con due gol al passivo, fu accantonato e relegato in panchina.

Il capitano dei Bafana Bafana concluse la sua stagione con 15 presenze e 1 gol. Non bastarono per la riconferma. E non erano certo cifre interessanti per chi diceva di ispirarsi a Baresi e somigliare a Desailly. Qualche mese dopo finì al Bologna. Ma ci restò poco. In pratica appena 15 giorni. Giusto il tempo per conoscere il suo allenatore Renzo Ulivieri che lo bocciò con queste parole.“Non è rapido nei movimenti e quando viene attaccato può trovarsi in difficoltà”. Colpito e affondato. E rispedito al mittente.

La Lazio trovò il modo di piazzarlo in Inghilterra: 3 anni al Bolton, 5 al Charlton, 1 al Ipswich Town, Poi il ritorno in patria dove intraprese anche la carriera da allenatore. Ma nessuno è profeta in patria. E  dopo 4 mesi alla guida dei Thada Royal Zulu fu esonerato. Magari il presidente voleva dare una svegliata alla squadra. E forse Mark si era dimenticato di regolare la sveglia.

Mariano Messinese

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Axel Konan: tormento di Buffon e dei sorrentini

Si era parlato tanto di lui quando indossava la maglia del Lecce e, a soli 21 anni, ebbe la sfrontatezza di freddare due volte Buffon quando i salentini espugnarono il Delle Alpi di Torino. Era considerato un astro nascente, una stella, uno di quei giocatori per cui i grandi club sarebbero stati disposti a svenarsi per assicurarsene i servigi. Invece, proprio quando ci si aspettava la sua consacrazione, si è impantanato senza riuscire a spiccare il volo.

Dal Lecce passò in prestito al Torino senza fortuna, mentre con i giallorossi si tolse la soddisfazione di segnare nuovamente in casa della Juventus, ma stavolta all’Olimpico, nuova dimora dei bianconeri. Poi si è come eclissato, sulla sua parabola discendente hanno inciso anche alcuni problemi fisici, il suo momento di gloria era svanito così, per rilanciarsi, decide di approdare al Bellinzona in Svizzera. I suoi due gol, non consentono alla sua nuova squadra di evitare la retrocessione ma, per lui, dopo alcuni mesi di inattività, si riaprono le porte dell’Italia.

Erano lontani i tempi in cui impressionava sui campi delle massima serie con chi ne preconizzava un’ascesa ai massimi livelli, ritornava con la fortuna di stare in uno dei posti più belli del Belpaese, ma in una categoria non proprio esaltante: la Prima Divisione, la vecchia C1. Era il mese di febbraio, l’offerta arrivava da Sorrento, una squadra invischiata in brutte acque di classifica e che aveva un impellente bisogno di un attaccante che la buttasse dentro. Chi meglio di uno che aveva strappato applausi in serie A?

Il suo acquisto, non è che sia stato accolto dagli osanna dei sorrentini, ma sicuramente con una buona dose di ottimismo, anche se qualcuno già vedeva i titoli di coda scorrere sulla sua carriera. Si pensava, comunque, che avrebbe potuto risolvere gran parte dei problemi di un attacco evanescente e spuntato, bisognava salvare i rossoneri dal baratro della retrocessione. Un “Barbaro” nella terra delle Sirene, come sarà andata l’esperienza, sarà riuscito a realizzare i gol necessari per brindare alla permanenza in categoria? Il doppio spareggio perso con il Prato condannò i costieri allenati da Papagni ad una mesta retrocessione, con Konan che vide pochissimo il campo senza mai andare a segno.

Le uniche volte che mise piede sul rettangolo di gioco, i difensori erano indecisi se marcarlo o meno stante la sua goffaggine. A retrocedere direttamente, in quel girone, fu la Carrarese, squadra per cui batte il cuore di Gigi Buffon che, pur vantando un palmarès invidiabile, è probabile che si sia svegliato più volte durante la notte pensando a quando fu giustiziato da Konan. Qualcuno aveva immaginato un ipotetico spareggio salvezza proprio con la Carrarese, accettando che a difendere i pali dei marmiferi, fosse proprio il portiere campione del Mondo, e se fosse bastato per far deflagrare il killer instinct del colored ivoriano? Pare che, durante gli allenamenti settimanali del Sorrento, ci fosse una fila interminabile di persone per assistere alle prodezze di Konan, senza che nessuno si rendesse conto di un aspetto: i portieri avevano tutti lo stesso volto, in realtà indossavano la maschera di Buffon.

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Busto marmoreo di Konan il barbaro

Poi, la domenica, scendeva in campo un giocatore spento e macchinoso. In quel periodo, a Sorrento ci fu una scomparsa che fece scalpore: quella di Gigi il “Buffone”, il portiere di un palazzo, che lasciò il seguente messaggio: “Dite a Konan che i guanti che indossavo l’altro giorno erano quelli del giardiniere che mi aveva chiesto un aiuto, gridavo “Mia” perché così si chiama il gatto, la rete la uso per andare a fare le cozze, possibile che si presenti ogni domenica arrivando a scambiare l’area di parcheggio per quella di rigore?”.

Maurizio Longhi

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Ali Samereh: casa, moschea e digiuno di gol.

Ci sono un coreano, un argentino e un iraniano. No, non è l’inizio di una barzelletta. Ma sono solo le nazionalità di alcuni giocatori presenti nella rosa del Perugia all’inizio del campionato 2001-2002. Infatti la società umbra a cavallo del terzo millennio sembra una multinazionale con a capo un padre padrone come Luciano Gaucci. Vulcanico, dispotico a tratti geniale: Lucianone una ne pensa e 100 ne fa. Anzi 100 ne acquista, soprattutto dai campionati più strani e assurdi, come quello cinese o iraniano. E così nell’ estate del 2001 arriva dall’affascinante e misteriosa Persia un oggetto altrettanto misterioso: si tratta di Ali Samereh, attaccante dell’Esteghal e della nazionale del suo paese. Per agevolare la trattativa si muove in prima persona un misterioso intermediario: un imprenditore di tessuti persiani, nato in Iran ma trapiantato in Umbria da tanti anni. Opportunista, forte fisicamente e nel gioco acrobatico. Così lo descrivono le cronache di quegli anni. Ma Samereh non è uno che si monta la testa. Dopo tutto è un ragazzo di 24 anni che vive lontano dalla sua Terra. E’ umile e soprattutto molto religioso, Si sveglia alle 6 per la preghiera mattutina, non beve alcol, né mangia carne di maiale e ovviamente rispetta il Ramadan. 

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Ali Samereh in carne,ossa e monociglia

Ma la sua avventura calcistica in Italia sarà un continuo Ramadan: in pratica resterà a digiuno di gol. Per la verità, Ali Samereh disputò anche un buon precampionato. Ma il calcio estivo è ingannevole  Il sole picchia forte e  può causare allucinazioni. Pertanto può anche capitare di scambiare un bidone per un nuovo talento da mandare in campo alla prima giornata. E infatti Cosmi fa così. Schiera l’iraniano all’esordio stagionale contro l’Inter, ma  è un disastro. L’Inter rifila un poker al Perugia: finisce 4-1 per i nerazzurri. Samereh resta in campo un’ora abbondante, con risultati imbarazzanti. E’ inconsistente, spaesato, addirittura sembra esile rispetto al giocatore ammirato in estate. Un esordio anonimo – commenta Cerruti della Gazzetta. Parole profetiche, perché da allora l’attaccante sprofonda nell’anonimato. Giocherà solo altri 5 spezzoni di partita in serie A. Prima di essere rispedito in patria. Ma per un iraniano che parte, un altro ne arriva. Si tratta di Rahman Rezaei che farà una figura migliore. Anche perché fare peggio del suo predecessore era impossibile. Mariano Messinese Twitter:@MarianoWeltgeis

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Francois Omam-Biyik: un leone addomesticato in panchina

Quando sei sulla cima puoi solo scendere. Così recita l’antico adagio. E come spesso accade, la saggezza popolare ci azzecca. Lo sa benissimo Francois Omam Biyik. Il camerunese raggiunse il punto più alto della sua carriera nella partita inaugurale di Italia ’90. Minuto sessantasette della sfida. Il pallone spiove nell’area di rigore argentina. Omam Biyik sale in cielo a colpire la sfera. Resta sospeso lassù per attimi interminabili, quasi a contemplare gli dei. Ma quel giorno gli dei del calcio sono scesi sulla terra  e sembrano comuni mortali, nonostante la maglia albiceleste.

Insomma, i campioni del mondo sono irriconoscibili, mentre qualche buontempone ha cosparso di olio i guanti di Pumpido, perchè il pallone scivola dalle mani del portiere argentino e termina docilmente in rete. Clamoroso. Camerun in vantaggio nonostante l’inferiorità numerica. Ecco, questo fu lo zenit dell’ex attaccante di Rennes e O.Marsiglia. Quello che viene dopo è solo una lenta e inesorabile parabola discendente, con un fugace apparizione alla Sampdoria nel gennaio ’98.

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Omam Biyik raggiunge il punto più alto della sua carriera

A metà campionato la Samp vivacchia a centro- classifica. E’ vero, è il primo anno dell’era post Mancini, e Morales non è all’altezza, ma  Il potenziale per migliorare la posizione ci sarebbe. In pratica i blucerchiati sembrano scolaretti intelligenti, ma svogliati, nonostante il pugno di ferro del maestro Boskov. E’ in questo clima di rilassatezza che arriva l’ormai quasi 32enne Omam Biyik.

La conferenza stampa di presentazione è già tutto un programma: ” A novembre sembrava che il mio sogno di giocare da voi si fosse realizzato. Ma poi il Lecce mi mando’ via, e nemmeno mi spiego’ perche”. I tifosi doriani lo capiranno dopo. Intanto Boskov chiarisce:” Non lo conosco, aspetto di vederlo all’opera per giudicare. Certo, per il campionato italiano occorre essere davvero al massimo per fare bene”.

Per carità, il camerunese ce la mette tutto: l’impegno c’è. Ma i gol non si vedono. Anche se sulla Gazzetta insistono”  La Samp si e’ aggiudicata sino al termine della stagione un bomber maturo, ma di sicura esperienza”. Invece la sua avventura si concluderà con 0 reti e sei presenze, cioè una al mese. La stessa media di un dipendente pubblico lavativo.

Mariano Messinese

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Mike Tullberg: la meteora precipitata nello Stretto

La forza fisica inversamente proporzionale alla freddezza sotto porta. Sì può riassumere così l’esperienza italiana di Mike Tullberg. Il centravanti danese sbarcò in riva allo Stretto, sponda reggina, negli ultimi giorni di mercato dell’agosto 2007. Tre giorni dopo la presentazione al Granillo, venne subito schierato dal 1′ dal tecnico Ficcadenti per la gara contro il Torino.

Ma facciamo  prima un passo indietro: la Reggina si presenta al taglio del nastro della stagione con un grosso punto interrogativo: non c’è più Rolando Bianchi, autore dei 18 gol che hanno salvato la squadra di Mazzarri nel 2006-2007.  In pratica, Ficcadenti dovrà fare a meno dell’eroe della salvezza nel campionato della penalizzazione. Non è un problema da poco. Anzi è un rompicapo. Ma Foti ha l’intuizione per risolvere il cubo di Rubik: fare spese in Danimarca. E così arrivano il difensore Kris Stadsgaard, altra meteora e l’attaccante Tullberg. Avessi  detto i fratelli Laudrup.

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Mike Tullberg in suo primo piano spietato

MIke Tullberg è un centravanti. E’ alto 1,85 e pesa 77kg. Ma ha un grosso difetto: segna poco. In pratica, un peccato capitale per chi gioca in quel ruolo. Del resto i numeri parlano chiaro: 56 presenze e appena 12 reti nel campionato danese. Tradotto:  ha lo stesso score  di Thomas Helveg. Solo che quest’ultimo è un terzino.

Al debutto Tullberg non sfigura. Almeno per una buona ora di gioco: lotta e sgomita contro la difesa avversaria. Fino a quando Amoruso non lo libera davanti al portiere. Il danese è solo, ha tutto il tempo per controllare e tirare in porta. Invece spara alle stelle. Ficcadenti lo toglie dal campo qualche minuto dopo. Il giorno seguente, la “Rosea” parla di un Tullberg spumeggiante come la birra, ma poco concreto. Comunque sufficiente. Quindi sarà Confermato per la prossima gara? No. Rimandato? Nemmeno. Bocciato, senza appelli. Eh sì, il calcio è spietato, ma Ficcadenti lo è ancora di più. Tullberg invece non lo è per niente. Soprattutto davanti al portiere.

Da allora Tullberg vede il campo solo in altre 4 occasioni. Addirittura l’arrivo di Ulivieri complica le cose, invece di migliorarle, perchè il danesone viene degradato in Primavera. A fine stagione lascia la Calabria e si trasferisce in Scozia in prestito. Rescinde con la Reggina nell’agosto del 2009. Ad appena 27 anni, dopo un brutto infortunio, appende gli scarpini al chiodo. Eh già, il calcio è proprio spietato, Vero, Mike?

Mariano Messinese

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Masashi Oguro: un giapponese in vacanza

Cosa non si farebbe per un pugno di yen e un po’ di marketing. Forse Urbano Cairo aveva letto quel passo del “Milione” di Marco Polo in cui il viaggiatore veneziano descriveva le immense ricchezze nipponiche. O forse no. Ma a volte non è tutto oro quello che luccica, soprattutto se ha la capigliatura biondo platino come quella del giapponese Masashi Oguro.

E’ lui il colpo di mercato del Torino nell’estate del 2006. Nonostante il look sbarazzino da anime giapponese, Oguro non è più giovanIssimo. Ha 26 anni, l’eta della maturità per un giocatore, quella giusta per tentare l’avventura nel calcio che conta. L’accoglienza è calorosa: al punto che i tifosi del Torino  lo ribattezzano l’Inzaghi dagli occhi a mandorla” per la sua riconosciuta rapidità in are di rigore. Già, ma riconosciuta da chi? Non di certo dal tecnico Gianni De Biasi che, ad una precisa domando sul nuovo acquisto, risponde: “Oguro? Chi? Non lo conosco”. Insomma, poco gratificante. Ma De Biasi viene esonerato tre giorni prima dell’inizio del campionato. Al suo posto arriva Zaccheroni. Cambia poco, sia per il Toro che è relagato nelle parti basse della classifica, sia per il giapponese che continua a vedere il campo con il binocolo. A febbraio Cairo silura Zac, richiama De Biasi e il Toro conquista la salvezza. Nonostante sia sceso in campo solo in 7 occasioni, peraltro da subentrato, Oguro viene riconfermato. Ma l’anno successivo il Torino vive un’ altra stagione tormentata con Novellino in panchina.

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Masashi Oguro in versione HD

13 gennaio 2008, all’Olimpico di Torino i granata sono sotto di 2 gol contro il Livorno. Al 27 del s.t. entra Oguro. Si scatena la contestazione contro Novellino. Sulle note di “Rumore”, tra l’ironico e il rabbioso, parte il coro: “MA CI PRENDI/PER IL CULO/FAI ENTRARE ADDIRITTURA OGURO, OGURO…”. I numerosi tifosi giapponesi chiedono la traduzione e arrossiscono. Almeno loro. Ad aprile altro colpo di scena: via Novellino, dentro De Biasi che salva il Toro. Al termine del campionato Oguro fa le valigie e torna in patria. I numeri non sono esaltanti: in due stagioni ha collezionato appena 10 presenze e 0 gol. In pratica la sua avventura italiana si è trasformata in una vacanza.

Recentemente Sky Sport 24 ha tirato fuori una tabella con tutti i calciatori giapponesi che hanno giocato  in Italia. C’erano tutti, persino Yanagisawa e Miura. Mancava solo lui: Oguro. Lo avevano dimenticato. Invece i tifosi del Torino non hanno mai dimenticato quel coro…

Mariano Messinese

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Kenneth Zeigbo: da osservato speciale a vigilante

Un secolo e mezzo dopo Livingstone l’Europa guarda ancora al “continente nero”. Alle soglie del 2000 nuovi esploratori setacciano palmo a palmo l’entroterra africano. Ma questa volta non ci sono avventurieri o missionari, armati di fucili e vangelo. No, i tempi sono cambiati. L’Africa è percorsa in lungo e largo da osservatori e talent scout, equipaggiati di taccuino e tanta buona volontà. E con un solo obiettivo in testa : scovare il nuovo talento del calcio africano. E’ proprio questo a spingere i dirigenti del Legia Varsavia a prendere, nell’estate del 97, un aereo con destinazione Nigeria. L’osservato speciale è Kenneth Zeigbo. L’affare si fa e l’attaccante si trasferisce in Polonia. Un anno dopo ha già le valigie in mano. Sbarca in Laguna, ad attenderlo c’è  Zamparini che ha versato 4 miliardi di lire nelle casse del club polacco per rinforzare il Venezia, neo promosso nella massima Serie. Il nigeriano ha finalmente l’occasione giusta per confrontarsi con il grande calcio. Il giorno della presentazione non nasconde la sua gioia e annuncia:” Ho l’occasione per dimostrare nel campionato più difficile del mondo le mie qualità. Conosco i difensori italiani, li ho sperimentati affrontando il Vicenza. Ho visto in videocassetta il Venezia e mi ha conquistato: aggressivo, come piace a me”. Ma evidentemente non conquista Novellino, perchè il tecnico, in contrasto con l’ esterofilia tanto di moda nel nostro paese in quel periodo, risponde puntando sull’italianissimo tandem  Schwoch-Maniero, in sintesi sull’usato sicuro. Insomma l’avventura di Zeigbo parte col piede sbagliato. Anzi col ginocchio sbagliato: Infortunio e stop di un paio di mesi. zeigbo

Kenneth Zeigbo in una rara apparizione al Venezia

Intanto il Venezia boccheggia in fondo alla classifica. Ma a novembre Zeigbo riemerge dalla nebbia lagunare e riesce anche a debuttare in campionato nei 2′ finali di Venezia- Cagliari. Sette giorni dopo, Novellino lo getta nella mischia a un quarto d’ora dalla fine per scardinare il muro eretto dal Piacenza. Ma il gol non arriva e il nigeriano si becca un 5 in pagella che viene motivato così:” Ha peso fisico ma non trova soluzioni”. Insomma non basta avere un fisico bestiale, se i piedi non sono eccelsi e la fortuna non è dalla tua parte. Quindi, nuovo infortunio e nuovo stop, proprio mentre arriva Recoba che da solo o quasi conquista una salvezza insperata fino a qualche mese prima. Nella stagione successiva non c’è più spazio per Zeigbo. A gennaio espatria in Libia dove ritrova gol e condizione. Ma l’amore per l’Italia è smisurato e  il richiamo del Bel paese è troppo forte per resistere alla tentazione. Anche a costo di ripartire dalla C1 a L’Aquila. Nel 2013, dopo una lunga peregrinazione nelle serie minori, dove è stato  vittima di  ripetuti insulti razzisti da tifosi e avversari, Zeigbo appende le scarpe al chiodo e viene assunto in una società di sorveglianza. Anche fuori dal campo, però, sul treno diretto a Padova, subisce un’ aggressione verbale di stampo razziale da parte di un controllore per non aver fatto in tempo a obliterare il biglietto. Ma nonostante questo l’ex attaccante del Venezia non ha dubbi: ” Mi sento italiano ed amo questo Paese anche se c’è del razzismo”. Hai proprio ragione, Kenneth, l’Italia è stupenda. Nonostante questi idioti. Mariano Messinese Twitter:@MarianoWeltgeis

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Mario Jardel: da Supermario a Lardel

A metà degli anni ’90 sarebbe stata una rosa eccellente. Il guaio è che fu costruita nel 2003-2004, quando l’età media di quegli stessi giocatori  si avvicinava più agli “anta” che ai trenta. Insomma l’Ancona di Pieroni, nell’anno del suo secondo storico campionato nella massima serie, poteva fregiarsi di calciatori come: Hubner, Poggi, Luiso, Maini, D. Andersson, Di Francesco, Rapajc e Dinone Baggio. Oltre a  Mads Jorgensen e Luis Helguera,fratelli d’arte, ma comunque figli di un Dio minore della pedata. In teoria, dieci anni prima con questa squadra i tifosi marchigiani potevano sognare. In pratica un decennio dopo lo squadrone sembrava una polisportiva dopolavoro ferroviario. Morale della favola? Al giro di boa l’Ancona era ultimissimo con zero vittorie all’attivo.

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Mario Jardel in forma smagliante (e con smagliature) nel giorno del suo debutto

A gennaio Pieroni ha l’intuizione: potenziare l’attacco con Jardel. C’è solo un piccolo grande intoppo; Jardel è ormai lontano parente del Supermario ammirato al Porto e al Galatasaray. E’ talmente obeso da sembrare in dolce attesa e per questo motivo sarà presto ribattezzato “Lardel” dai suoi nuovi tifosi. Nonostante lo scetticismo, debutta la settimana successiva alla sua presentazione contro il MIlan. L’Ancona ne prende 5 e Jardel gioca (si fa per dire) 85′. I movimenti sono buoni, ma la velocità è ferma sul livello moviola. Dopo la disfatta Sonetti salta. Al suo posto arriva Galeone che ha già le idee chiare: “All’Ancora servono 7 vittorie consecutive” . A SuperMario invece basterebbe perdere 7 kg. Magari in sette giorni, come in un famoso film di Verdone e Pozzetto. Ma i tempi stringono e la dieta non funziona.

Galeone lo spedisce quindi in tribuna per le due partite successive, Ma lo rispolvera per la gara interna contro la Roma. Al Conero succede l’impensabile: i padroni di casa fermano i giallorossi, secondi in classifica, nonostante gli 82′ in campo  del fischiatissimo Jardel. Galeone gli concede comunque  un’altra chance contro l’Udinese. Ma se ne pente subito. Dopo trentasei imbarazzantissimi minuti manda il brasiliano sotto la doccia. Supermario esce dal campo senza passare dalla panchina. Nei giorni successivi la situazione precipita: la moglie lo lascia e lui si barrica in casa disertando gli allenamenti. A marzo scappa via  tra l’indifferenza della piazza e il sollievo di Galeone. A maggio firma per il Palmerais. Ma non può giocare, perchè  scopre che non ha ancora rescisso il contratto con la società marchigiana. Si dichiara prigioniero dell’Ancona, manco fosse un brigatista. In realtà Jardel non era prigioniero, ma soltanto schiavo del suo passato. E ovviamente della forchetta.

Mariano Messinese

Twitter: @MarianoWeltgeis

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Sotiris Ninis: il Messi greco che piaceva al Milan

Tutti pazzi per Sotiris. Sì, detta così sembrerebbe la parodia del ben più celebre film : tutti pazzi per Mary. In realtà c’è stato un momento storico in cui Sotiris Ninis è stato appetito dai più grandi club europei: Roma, Milan, Inter e Real Madrid. In pole position però c’era il Manchester. Ma Sir Alex Ferguson ingranò la marcia sbagliata alla partenza e il centrocampista greco finì a Parma. Come a Parma? Sì, le vie del calciomercato sono infinite e spesso transitano per l’Emilia.

C’è un piccolo retroscena che spiega tutto. Anche l’imponderabile. In pratica Ninis nel settembre del 2011 si rompe il legamento del crociato destro. Diagnosi impietosa: 6 mesi di stop. Senza dimenticare un altro aspetto fondamentale: a giugno 2012 il suo contratto con il Panathinaikos va in scadenza. Quindi a marzo Ghirardi annuncia l’ingaggio di Ninis. Concorrenza ( o quel che restava) bruciata. Ma il presidente gialloblu resterà comunque scottato dalla storia

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Ninis e il calcio italiano: è questione di testa

In pratica il Messi ellenico (chissà poi chi assegna questi soprannomi) non riuscì mai ad ambientarsi nel calcio italiano. Scese in campo appena 13 volte. Per lo più da subentrato e senza lasciar nemmeno intravedere le sue (poche) qualità. A giugno 2013 Sotiris Ninis fece i bagagli e si accasò al Paok Salonicco con la formula del prestito secco. Dopo una stagione in Grecia è ritornato a Parma. Ma solo per pochi giorni: meno di un mese fa ha rescisso il contratto. Con buona pace di tutti. Sopratutto dei tifosi crociati.

Mariano Messinese

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